Disturbo da depersonalizzazione: approcci farmacologici

Il disturbo da depersonalizzazione (DPD) è una condizione cronica e angosciante con una prevalenza nella popolazione generale tra 0,8 e 2%. Diversi studi neurobiologici nell’ultimo decennio hanno dimostrato che i pazienti hanno un’attivazione limbica soppressa agli stimoli emotivi. Tali risultati sono in linea con un modello che suggerisce che la condizione è generata da una risposta inibitoria alla minaccia innescata dall’ansia e “cablata”. Un tale meccanismo garantirebbe la conservazione del comportamento adattivo, durante situazioni normalmente associate a un’ansia travolgente e potenzialmente disorganizzante. Nel DPD, tale risposta diventerebbe cronica e disfunzionale. La depersonalizzazione rimane una condizione per la quale non esiste un trattamento definitivo, e per la quale i farmaci convenzionali, come gli antidepressivi o gli antipsicotici, si sono rivelati di scarso valore. Fortunatamente, alcune linee promettenti di trattamento farmacologico sono emerse negli ultimi anni, anche se sono necessari studi più rigorosi. Per esempio, una serie di studi suggerisce che gli antagonisti dei recettori degli oppioidi come il naltrexone e il naloxone sono utili almeno in un sottogruppo di pazienti. Nonostante le aspettative iniziali, l’uso della lamotrigina come unico farmaco non è stato trovato utile. Tuttavia, studi in aperto suggeriscono che il suo uso come trattamento aggiuntivo con inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) è benefico in un numero sostanziale di pazienti. Allo stesso modo, l’uso del clonazepam, in particolare in combinazione con gli antidepressivi SSRI, sembra essere benefico nei pazienti con alti livelli di ansia di fondo. In linea con il modello di depersonalizzazione legato allo stress, i sistemi di neurotrasmettitori rilevanti per la depersonalizzazione sono noti per svolgere importanti ruoli inibitori nella regolazione della risposta allo stress.

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