PJ Harvey'le 50 più grandi canzoni – classifica!

Who the Fuck? (2004)

Un raro momento di leggerezza nell’opera della Harvey: tutta la furia folle, vendicativa e urlante di Rid of Me si abbatte su un parrucchiere che ha fatto l’errore di rovinare il taglio e l’asciugatura della cantante: “Togli il tuo pettine da lì! Non puoi raddrizzare i miei ricci! Vaffanculo! Vaffanculo!”

Harder (1995)

I lati B di Harvey possono fornire una ricca scelta: se riesci a capire perché Harder non ha fatto il taglio per To Bring You My Love – non c’è modo di aggirare il fatto che è essenzialmente una canzone su un pene eretto – il puro gusto lascivo e il contorto riff di chitarra sono irresistibili.

Water (1992)

Si può sentire l’influenza dell’alt-rock statunitense su Dry, ma il suo contenuto sembra avere un tipo di intensità diversa da qualsiasi altra cosa in circolazione all’epoca, come dimostra la misteriosa rappresentazione di Water di un suicidio che potrebbe essere guidato dall’amore o dalla mania religiosa: un ascolto avvincente e punitivo.

Guilty (2016)

Registrata per The Hope Six Demolition Project, ma lasciata fuori dall’album e successivamente pubblicata come singolo, Guilty è molto più oscura dell’album che l’ha preceduta: un’impresa non da poco, ma con la sua raffica di percussioni, ottoni e synth discordanti e un testo sugli attacchi dei droni, ci riesce con cupo aplomb.

The Crowded Cell (2019)

Harvey si è recentemente spostato nella colonna sonora di film e opere teatrali. Come dimostra il tema di chiusura del dramma televisivo The Virtues di Shane Meadows, ciò non ha comportato alcuna diminuzione dell’intensità del suo lavoro: cupo, ripetitivo e potente, The Crowded Cell descrive senza mezzi termini una litania di abusi fisici e mentali.

Is That All There Is? (1996)

Harvey raramente registra versioni cover. La sua feroce interpretazione dell’era Rid of Me su Wang Dang Doodle di Willie Dixon è piuttosto spettacolare, ma la migliore di esse potrebbe essere questa versione agonizzantemente lenta e assolutamente sconsolata dello standard di Peggy Lee: tirare fuori l’alcol e divertirsi non è mai stata una prospettiva così miserabile.

Taut (1996)

La prima collaborazione di Harvey con John Parish, Dance Hall at Louse Point, nella sua forma più strana e imprevedibile: una voce balbettata e sussurrata su un sottofondo caotico che occasionalmente si risolve in qualcosa come un coro alt-rock. Fuori dal mondo, ma bizzarramente accattivante.

Easy (1993)

Una canzone che è apparsa solo sulla raccolta 4-Track Demos, Easy è tesa e livida come qualsiasi cosa su Rid of Me: un testo che tratta un argomento che sarebbe poi stato chiamato slut-shaming, chitarre flagellanti, una traccia ritmica fornita da Harvey che abbaia.

This Mess We’re In (2000)

This Mess We’re In è una canzone favolosa – splendidamente smorzata, la musica evoca il crepuscolo che si posa su una città – ma anche se non lo fosse, entrerebbe in questa lista per il fatto che richiede che il cantante ospite Thom Yorke canti il verso “Night and day I dream of makin’ love to you now, baby”.

41 Send His Love to Me (1995)

Non è mai stata una grande fan delle spiegazioni liriche, la Harvey si è sempre lamentata del fatto che la gente tende a proiettare la sua vita personale sulle canzoni alle quali si avvicina come una scrittrice di racconti, cosa evidente nella saga di Send His Love to Me di una moglie abbandonata che sta lentamente impazzendo nella sua remota casa nel deserto.

The Wind (1998)

È questo Desire? al suo massimo splendore. La musica è muta, debolmente trip-hoppy – una batteria funk sincopata, un loop di chitarra incessante, archi cinematografici – ma è disseminata di frammenti di rumore disarticolato. La voce è in parte sussurrata, il testo contempla la tortura e il martirio di Santa Caterina: di basso profilo, ma The Wind entra davvero sotto la pelle dell’ascoltatore.

We Float (2000)

“È solo pop secondo PJ Harvey”, ha detto la cantante di Stories From the City, Stories From the Sea, “che è probabilmente quanto di meno pop si possa ottenere per gli standard della maggior parte delle persone”. We Float lo dimostra: la sua melodia è adorabile, ma la sua deriva senza peso di sei minuti cammina su una strana, inebriante linea tra il beato e il sinistro.

White Chalk (2007)

Un film giallo profondamente inquietante in una canzone, cantato con una voce infantile che occasionalmente vira fuori tono e impostato su piano e banjo. Nella campagna del Dorset, qualcosa di terribile è chiaramente accaduto al narratore, una donna incinta, ma esattamente cosa – omicidio? Suicidio? – non viene mai rivelato.

PJ Harvey dal vivo a Roma, 2008. Fotografia: Ernesto Ruscio/FilmMagic.com

Meet Ze Monsta (1995)

C’è una distinta giocosità in Meet Ze Monsta, la traccia di To Bring You My Love che più ricorda il suo predecessore Rid of Me. La Harvey suona come se si stesse divertendo un mondo nell’interpretare la protagonista minacciosa e oscuramente sexy della canzone: c’è un vero piacere nella sua voce, una potenza cruda e sporca nel suono ultra-distorto.

The Sky Lit Up (1998)

Harvey è sempre stata abile nel giustapporre umori musicali e lirici selvaggiamente diversi. La potenza di The Sky Lit Up deriva dal modo in cui il testo suona ubriaco d’amore, ma la musica e la voce raccontano una storia completamente diversa: implacabile, ripetitiva, alimentata dal feedback, maniacale.

Man-Size (1993)

C’è un senso in cui Harvey è sempre stato avanti nel gioco: se Man-Size fosse uscito oggi, sarebbe stato acclamato come una potente meditazione sulla fluidità di genere e l’identità sessuale. I suoi testi in qualche modo riescono ad essere astratti e potenti: l’incessante rintocco di una nota delle sue chitarre è formidabile come la figura che rappresentano.

That Was My Veil (1996)

La sua casa discografica pare abbia dichiarato che il primo album di collaborazione della Harvey con John Parish, Dance Hall at Louse Point, sia stato un “suicidio commerciale”, ma ascoltando That Was My Veil, è difficile capire quale sia stato il problema: è una canzone fantastica, la musica di Parish è così in sintonia con i testi della Harvey che non si direbbe che ci siano due autori coinvolti.

The Sandman (2019)

La colonna sonora di Harvey per un nuovo adattamento teatrale del film del 1950 All About Eve “esplora gli aspetti più cupi e profondamente psicologici della storia”: non si dice. Cantata da Gillian Anderson, la melodia di The Sandman è squisita, ma il suo umore è piuttosto sepolcrale. Mettiamola così: non sembra che abbia voglia di dormire bene.

The Words That Maketh Murder (2011)

Altra bizzarra giustapposizione. La musica sbarazzina, assistita dagli ottoni, rende in qualche modo più straziante la testimonianza del campo di battaglia nei testi: “Ho visto soldati cadere come pezzi di carne… braccia e gambe appese agli alberi”. Ancora più strano, finisce con una parafrasi scherzosa di Summertime Blues di Eddie Cochran: “What if I take my problem to the United Nations?”

The Darker Days of Me & Him (2004)

Una gemma nascosta tra l’irregolare Uh Huh Her, un album in cui Harvey suonava ogni strumento. La sua qualità lo-fi funziona davvero qui. C’è un contrasto ipnotizzante tra il sinistro, nebbioso sottofondo e la lamentosa voce e la chitarra acustica di Harvey: “

Working for the Man (1995)

Il personaggio principale di Working For the Man potrebbe, teoricamente, essere un venditore ambulante con tendenze religiose, ma sembra molto più probabile che sia un serial killer: certamente, la voce mormorata e microfonica e la spaventosità della musica – per non parlare del suo brusco finale – suggeriscono qualcosa di molto sgradevole.

Oh My Lover (1992)

Il brano di apertura dell’album di debutto della Harvey annuncia a gran voce l’arrivo di una cantautrice che opera in uno spazio interamente suo. C’è un accenno ai Pixies nella musica, ma le parole si spostano in modo scomodo e potente, da sonnolentemente sexy a nevrotiche e fissate.

Crawl Home (2003)

Il contributo della Harvey al volume 9 delle Desert Sessions di Josh Homme è tra i punti forti della serie fino ad oggi. I testi di Crawl Home sono molto nelle sue corde – amore malato e ossessivo – e lei suona assolutamente imperiosa sopra il vortice di riff pesanti.

This Wicked Tongue (2000)

Dice qualcosa sulla qualità del materiale su Stories From the City… che una canzone buona come This Wicked Tongue è stata relegata allo status di traccia nascosta. Infatti, la precedente versione di Peel Session potrebbe essere quella definitiva. Più dura e rumorosa, si adatta all’oscurità apocalittica del testo: “Dov’è il cuore nel mucchio di spazzatura dell’uomo?”

Me-Jane (1993)

Il machismo spavaldo del vecchio ritmo hambone di Bo Diddley viene caoticamente, entusiasticamente spremuto al servizio di una canzone sull’idiozia del machismo spavaldo: “Oh, accidenti al tuo battere il petto”, offre il narratore, chiaramente annoiato dalla vita come compagno di Tarzan, “smetti di gridare.”

The Piano (2007)

Nonostante non sia in grado di suonare lo strumento che dà il titolo alla canzone, Harvey ne ha fatto il fulcro di White Chalk e ha cantato in un registro più alto del solito. I risultati di questo viaggio al di fuori della sua zona di comfort erano inquietanti e parsimoniosi, come splendidamente dimostrato qui.

The Dancer (1995)

In retrospettiva, sembra vagamente sorprendente che To Bring You My Love sia stata una svolta commerciale: certamente meno conflittuale di Rid of Me, era comunque un ascolto profondamente inquietante, come evidenziato da The Dancer, uno stupefacente esercizio di tensione tremante, pieno di oscure immagini religiose e riferimenti all’opera. Una canzone d’amore, niente di meno.

You Said Something (2000)

Harvey si preoccupava di suggerire che Stories From the City … non era il suo “album di New York”. Per tutti i suoi riferimenti geografici a Manhattan, You Said Something suona stranamente britannico – c’è una distinta inclinazione folk alle chitarre – rendendolo la perfetta sintesi del tema della donna inglese all’estero dell’album.

A Perfect Day Elise (1998)

Oppressivo e claustrofobico, A Perfect Day Elise è pieno di suoni: chitarra tremolante, dense onde di sintetizzatore, batteria martellante, basso ringhioso. Il ritornello offre un raggio di luce tra le tenebre – suona stranamente edificante in confronto al resto della canzone – ma il vero potere sta nella sua densa urgenza.

April (2009)

Harvey canta April con una strana, sottile, voce alta, come se stesse interpretando un personaggio molto più vecchio di lei, che aggiunge una carica emotiva alla visione delle stagioni che passano. La musica, nel frattempo, è semplicemente bella: spoglia e malinconica.

Rub Til It Bleeds (1993)

Per quanto riguarda le feroci dichiarazioni di indipendenza artistica, il debutto della Harvey su una major discografica non è male. Il che ci porta a Rub Til It Bleeds: cinque striscianti, ansiogeni minuti durante i quali Harvey si offre di – e non facciamo giri di parole – masturbare qualcuno in modo così violento da farlo sanguinare. Ci vediamo a Top of the Pops!

Reeling (1993)

L’album 4-Track Demos della Harvey è più di una curiosità per soli fan. Offre un tipo di intensità diversa, ma ugualmente irresistibile, rispetto alle produzioni di Steve Albini su Rid of Me, come evidenziato da Reeling: un’esplosione feroce di rumore frizzante e acuto e voci al limite della mania.

On Battleship Hill (2011)

Si potrebbe descrivere la voce acuta e la melodia ispirata al folk di On Battleship Hill come pastorale, ma non è certo un inno alla serenità bucolica: una passeggiata attraverso un ex campo di battaglia, incapace di scuotere il suo persistente senso di morte, turbata dal pensiero che, questa volta, la natura umana ha irrevocabilmente rovinato la natura stessa.

C’mon Billy (1995)

To Bring You My Love vide la Harvey abbandonare il suo originale trio chitarra-basso-batteria ed espandere il suo suono: certamente, gli archi lussuriosi di C’Mon Billy non avrebbero avuto posto su Rid of Me. Ma non ha diminuito la potenza della sua musica: la crudezza della sua voce si attacca alla setosità dell’arrangiamento, la disperazione nei testi è quasi tangibile.

Dress (1991)

Un sorprendente esercizio di rabbia ribollente, Dress prende un argomento indie rock diretto – l’amore non corrisposto – e lo spinge in un posto più oscuro: alla fine della canzone, non sei del tutto sicuro di cosa sia successo alla sua protagonista (“una donna caduta in un costume da ballo”), ma non suona bene.

The Ministry of Defence (2016)

Un riff garage super-pesante, super-semplice, martellante e un sax dissonante che sostiene un testo brillante. Inizia in modo piatto descrivendo un edificio abbandonato in Afghanistan – coperto di graffiti, pieno di rifiuti e vetri rotti – che improvvisamente si apre per rivelare tutto l’orrore: ossa e capelli umani, i fantasmi dei bambini uccisi lì.

Silence (2007)

Per tutta la sua inquietante, inquietante atmosfera, White Chalk contiene alcune delle melodie più lambenti e schiettamente belle di Harvey: non c’è quasi nulla di Silence oltre una semplice parte di piano e un armonium, ma la melodia è così bella da mettere in ombra i testi ossessivi e romanticamente devastati.

Black Hearted Love (2009)

Harvey ha protestato che i suoi album in collaborazione con John Parish sono stati ingiustamente trascurati, e Black Hearted Love dimostra abilmente il suo punto con i suoi testi contemporaneamente erotici e minacciosi, impostati su una sequenza di accordi gloriosamente imprevedibile e un riff coinvolgente.

This Is Love (2000)

This Is Love è relativamente semplice per gli standard della Harvey – un muscoloso garage rock con un testo che sembra giocare con la sua immagine di Regina delle Tenebre. C’è qualcosa di enormemente attraente nel sentire una donna che ha precedentemente minacciato di fare ogni sorta di cose spaventose in una canzone trasformarsi improvvisamente in Benny Hill: “Voglio inseguirti intorno al tavolo!”

50ft Queenie (1993)

“Ti dirò il mio nome: F-U-C-K! Se il suo album di debutto riguardava spesso le donne che soffrono per mano degli uomini, 50ft Queenie di Rid of Me ne era l’immagine negativa, una sovversione cruda, disordinata e provocatoria del portamento maschile del blues che celebra il potere femminile vendicativo: “Bend over, Casanova”.

The Wheel (2016)

Il suono garage rock deformato che ha definito The Hope Six Demolition Project in pieno effetto. Batterie martellanti; voci massificate alla Bad Seeds; sassofono squallido in primo piano; un testo che contempla l’omicidio di massa dei bambini “scomparsi”. Nessuna retorica alla U2, solo osservazione, e tutto più potente e toccante per questo.

Angelene (1998)

Is This Desire? è stato un album spinoso e travagliato, realizzato in un periodo in cui circolavano voci preoccupanti sulla salute mentale di Harvey. Angelene non suona come il lavoro di qualcuno in un buon posto, ma c’è un accenno di ottimismo – “Ho sentito che c’è una gioia indicibile” – rispecchiato da un coro deliziosamente in contrasto con l’umore di cupa stanchezza.

The Desperate Kingdom of Love (2004)

Uh Huh Her è l’album più complicato e difficile della Harvey – in alcuni punti, suona sconcertantemente incompleto – ma in mezzo al caos, ha nascosto una delle sue più grandi canzoni, una semplice ballata di chitarra acustica vagamente country, così bella e senza tempo che sembra esistere da decenni: ricordata, piuttosto che scritta di fresco.

Harvey nel 1995. Fotografia: Brian Rasic/Brian Rasic/Getty Images

Written on the Forehead (2011)

C’è un argomento convincente che Let England Shake sia il capolavoro di Harvey: la sua ricchezza e ampiezza sono chiare qui, una canzone implausibilmente bella, intrisa di eco, che parla di città in rivolta e di annegamento nei liquami, sostenuta da un campione della hit reggae Blood and Fire del 1970 di Niney the Observer.

Sheela Na Gig (1992)

Non c’è da stupirsi che l’album di debutto di Harvey abbia avuto un tale impatto: nessun altro nel 1992 stava scrivendo canzoni come Sheela Na Gig, un assalto ferocemente eloquente allo sguardo maschile e alla misoginia con al centro l’immagine di una grottesca rappresentazione architettonica medievale dei genitali femminili.

Good Fortune (2000)

E’ raro che la Harvey renda un ovvio tributo alle sue ispirazioni musicali, ma il pezzo forte di Stories From the City è evidentemente un amorevole omaggio alla Patti Smith dell’era Horses, dal suono della chitarra all’intonazione della voce: il testo, nel frattempo, descrive perfettamente una improvvisa vampata di ottimismo.

When Under Ether (2007)

Una scelta sorprendente per un singolo – se non altro, ha dimostrato quanto Harvey lavori fuori dal mainstream – ma anche una canzone sorprendente: un brano di solo piano che apparentemente, ma non definitivamente, ritrae un’interruzione di gravidanza dal punto di vista della madre. Cantata con una voce fragile e sognante, è straordinariamente bella e assolutamente agghiacciante.

Down By the Water (1995)

La canzone di PJ Harvey che anche le persone che trovano PJ Harvey troppo sembrano amare, Down By the Water è ancora roba straordinariamente forte: una canzone su una madre che uccide sua figlia, apparentemente per qualche trasgressione sessuale, impostata su un abrasivo organo distorto, che termina con una filastrocca sussurrata, da brividi.

Rid of Me (1993)

E’ difficile scegliere un favorito definitivo dal catalogo di PJ Harvey perché lei ha mantenuto uno standard notevolmente alto per quasi 30 anni: anche i suoi album di minor successo sono ancora una spanna sopra. Ma la title track di Rid of Me è un concorrente forte come qualsiasi altro: una canzone brutalmente potente che si concentra sul momento in cui le conseguenze di una rottura diventano disperate e brutte, è piena di immagini angoscianti – “Ti farò leccare le mie ferite” – mentre passa dalla supplica lacrimosa alle minacce di violenza. La musica estende la dinamica silenzio-rumore dei Pixies/Nirvana al suo limite elastico e la canzone è mezza finita prima che arrivi l’esplosione catartica. È emozionante e perturbante: cercate su YouTube per vederla eseguire da sola dal vivo, senza perdere nulla della potenza viscerale.

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